CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Geishe e samurai. Esotismo e fotografia nel Giappone dell’800, Genova (2013)

Questo il sottotitolo della mostra Geishe e samurai in corso al Palazzo Ducale di Genova sino al 25 agosto 2013 che espone 125 immagini realizzate tra il 1860 e i primi anni del Novecento. Una mostra che ci interessa perché interamente costruita sull’incontro tra uno strumento di rappresentazione, le sue tecniche d’utilizzo e il discorso estetico in cui è inserito – e di cui è portatore – e un contesto completamente diverso e in profonda trasformazione storica, culturale e sociale dopo 300 anni d’isolamento. In particolare la mostra illustra l’attività della Scuola di Yokohama – la più importante dell’epoca per la sua rilevanza sia a livello tecnico, sia a livello commerciale, sia ancora per via del numero dei professionisti che ne hanno fatto parte (un migliaio, tra cui una ventina di donne e un centinaio di stranieri).
La fotografia (写真 shashin, lett. “copia della realtà”) viene introdotta in Giappone nel 1843 a opera degli Olandesi e dal 1860 assistiamo a una notevole produzione anche dovuta al fatto che il Giappone, che in quel periodo sta entrando in relazione con i grandi del mondo, riconosce tale arte come uno degli elementi del progresso dei quali deve dotarsi per stare al passo con gli altri moderni stati nazionali. Il modo in cui lo fa, però, rivela un classico meccanismo di ‘localizzazione’, per cui il nuovo elemento – che circola a livello transnazionale (oggi diremo ‘globale’) – viene rielaborato attraverso l’estetica, le finalità concrete cui è chiamata, e le categorie culturali locali.
La fotografia viene innanzi tutto introiettata nel sistema estetico nipponico: le immagini – si tratta di fotografie all’albumina poi colorate dai maestri giapponesi con pennelli talvolta d’un solo pelo – sono composte ricalcando elementi già alla base dell’arte pittorica locale, e quindi dando valore al vuoto, costruendo linee di fuga che spostano lo sguardo verso la periferia dell’immagine, mettendo in scena pochi soggetti e inserendoli all’interno di uno spazio quanto più possibile essenziale e geometrico, bloccando l’ ‘ineffabile’ secondo quello che è già l’ideale del ‘mondo fluttuante’ ( 浮世絵 ukiyo-e).
Tutto questo ha come conseguenza, tra l’altro, di rafforzare i soggetti umani rappresentati come ‘tipi ideali’. Questa istanza corrisponde in realtà a due funzioni cui è chiamata la fotografia in questo periodo e in questo contesto, l’una per i viaggiatori occidentali, l’altra per i giapponesi stessi.
Il Giappone rappresentato, infatti, è un contesto culturale ideale che da una parte riproduce le aspettative dei turisti che si recano nel Paese e che rappresentano i primi acquirenti delle stampe. I viaggiatori occidentali vogliono il paesaggio da cartolina, i mestieri tradizionali, le donne nelle più svariate situazioni (specie quelle in cui viene esaltato il corpo o la vita notturna proibita) – ovvero la rappresentazione del loro sguardo sul Giappone (una rappresentazione, quindi, parzialmente inventata, se non altro per lo scarto tra aspettativa pregressa e realtà incontrata o fatta loro vivere dai locali). E la fotografia – specie quando il nostro Felice Beato (c’è sempre un italiano di mezzo, sempre!) comincia a collaborare con la Scuola di Yokohama, suggerendo tra l’altro la realizzazione di album-souvenir da vendere ai viaggiatori – risponde perfettamente a tale scopo.
Ciò è perfettamente visibile nell’immagine delle aspiranti geishe ritratte da Kusakabe Kimbei che riprende il tema e la composizione delle Tre Grazie tipicamente di tradizione greco-latina e di qui profondamente europea!
Kusakabe Kimbei, Three young maiko, 1890 ca.
In altri casi, invece, la fotografia di questi decenni si rivolge ai giapponesi stessi, in particolare a coloro che soffrono la trasformazione repentina del Paese per quella modernizzazione che sta provocando forti cambiamenti e rivoluzionando la società, la cultura e tutti gli elementi della vita locale così come vissuta sino a quel momento. Smarriti di fronte al nuovo cui sono costretti, in molti cominciano a sviluppare una forte nostalgia per il tempo remoto, e le stampe del Giappone ‘tradizionale’ (che anche qui è più un ideale che una realtà del passato) con i loro tipi ideali diventano sorte di rifugi affettivi in cui mitigare la perdita dei costumi e dei valori cui si era abituati e in cui si credeva. I soggetti maschili qui sono i samurai, i preti buddhisti, coloro che praticano arti della lotta tradizionali (quali il sumō o il kendō).
Tutto questo avviene in entrambi i casi con accurate ricostruzioni in interni, in cui gli sfondi sono di volta in volta tessuti o pannelli dipinti con rappresentazioni di ambienti esterni e paesaggi naturali, in cui vengono posti in scena oggetti considerati propri della professione o delle caratteristiche sociali o culturali dei soggetti rappresentati, nonché il medesimo abbigliamento attinge al ricco campionario già di proprietà dello studio fotografico.