CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Perché amo l’antropologia (che è una visione del mondo), comunque (2013)

Mi preparo un’insalata ‘esotica’ o, meglio, qualcosa che viene spacciata come tale in Italia: basta aggiungere ananas, cocco, mango o papaya a ciò che si sta cucinando all’Occidentale e in automatico quello diventa ‘esotico’. Io ho scelto l’ananas: ci metto insalata verde, pomodori, cipolla cruda, mais (altra roba ‘esotica’ ma ormai sdoganata), pollo tagliato a cubetti (e fatto soffriggere con olio e limone) e infine, appunto, ananas. Mi preparo un maxi-bicchiere di acqua e sciroppo di latte di mandorle. Penso al mio stomaco che magari anche lui pensa e poi alza gli occhi al cielo dicendo “oh, Madonna, pure stasera mi butta giù roba dolciastra e roba salata insieme”, e sospira con rassegnazione.
Collego il pc all’alimentazione e alle casse dello stereo, la chiavetta già inserita, e sistemata comoda attacco la visione su YouTube di Cannibal Tours di Dennis O’Rourke, ringraziando il bravo ragazzo perseguibile penalmente che l’ha caricato.

E sin dall’inizio del film, io rido.

Rido perché vedo messe su uno schermo le ragioni stesse per cui l’antropologia è la mia scelta di vita, ciò che le dà senso, e quindi la ragione per cui non la lascerò mai: perché è troppo divertente, appassionante, curioso assistere alla parata dell’umanità in tutte le sue declinazioni collettive e individuali, in tutti i suoi ‘colori’ (di pelle, di abiti, di sonorità, di movimenti), e vedere come si dibatte da secoli nell’elaborazione di strategie per dare un qualche senso all’esistenza (“I believe in man. Whatever his mistakes, man has for thousands of years past been working to undo the botched job your God has made“, diceva Emma Goldman).
È come osservare un criceto in gabbia – la gabbia dell’esistenza stessa – e vedere quello che s’inventa a seconda dei pezzetti che gli metti dentro: una ruota, del potenziale mangime, una fetta di mela. Che nel mondo degli umani diventano un fiume, una montagna, dei frutti e degli animali. E infatti ti definiscono uno ‘scienziato sociale’, e che cosa è questo se non uno che guarda gli altri esseri umani come fossero criceti?

Bella parola pomposa e altisonante “antropologo”, vero? Che soddisfazione poter rispondere, quando qualcuno ti domanda “Che lavoro fai?”, “Io sono antropologo!”, e con questo indicare che non è solo un mestiere, ma qualcosa che tu sei: anzi, “ciò” che tu sei.
Perché l’antropologia, quando ti entra dentro, ti fotte la mente, e quindi a quel punto meglio dichiararsi eccentrico – ‘fuori dal centro’ – rispetto al pensare e all’agire della massa. Più snob farlo diventare un segno di distinzione, quella di colui la cui missione di vita è conoscere e comprendere gli altri esseri umani, e il perché agiscano in un certo modo.

Eggià, noi antropologi pisciamo corto…

E quindi io rido. Rido perché penso ai ‘maestri’ (o, meglio, quelli che ci vengono spacciati come tali) con i quali tu, povero studentello volenteroso, ti confronti all’inizio della carriera, o ai colleghi altezzosi che ti massacrano col refrain dell’andare sul campo, dell’andare altrove, dell’immergerti in un’altra cultura, del sopportare fatiche fisiche e psichiche immani, mettendo a repentaglio te stesso, la tua salute, il tuo equilibrio, la tua medesima possibilità di sopravvivenza, come conditio sine qua non per poterti dichiarare antropologo.
Ah sì? Queste sarebbero le sfide dell’antropologia? Ve ne dico una io, va’: provate a dedicarvi alla ricerca, magari tra immigrati che vi guardano giustamente con profondo sospetto, mentre voi stessi fate almeno 3-4 lavori (in nero, a progetto, a fatture saldate con ritardi immani e andando per vie legali) perché non siete stati raccomandati o vi siete proprio intenzionalmente sottratti al nepotismo accademico, mentre assistete un parente infermo e mentre combattete problemi di salute che non sapete come gestire sia per ragioni economiche che per concreta logistica, visto che correte tra vari lavori, ricerca, cibo-spazzatura perché non avete neanche il tempo per cucinare e cure raffazzonate della sanità italiana.

Ecco, allora quando mi dite dell’andare altrove io rido.

Perché i ‘riti di iniziazione’ alla professione antropologica intesi in questi termini sono ‘rubbish’, come mi disse un onesto antropologo australiano anni or sono: immondizia. E pure il fare antropologia in questi contesti dell’altrove può esserlo. Perché “l’antropologia si fa dove ce n’è bisogno nel momento in cui ce n’è bisogno”, come disse sempre quell’antropologo, e quindi qui o altrove è la stessa cosa in termini di utilità.

Che noi antropologi oltre a pisciare corto ce la tiriamo pure un po’ sulle nostre potenzialità, eh? E fare antropologia dove ce n’è bisogno, nel momento in cui ce n’è bisogno, significa farla quando gente con teste diverse deve trovare i modi di vivere insieme, possibilmente ascoltandosi, chiarendosi, mettendosi nei panni gli uni degli altri e cercando di non farsi reciprocamente troppo male. Perché altro che se vengono fuori i conflitti, e altro che se è difficile convivere: trovare i modi per stare insieme tra teste diverse è un miracolo!
Pensiamo solo alla nostra vita privata: quanti di noi sono single, separati, divorziati? Non dovremmo aver imparato qualcosa già dalle relazioni a due su quanto sia difficile la convivenza tra teste diverse? Figuriamoci quando i numeri dei conviventi sullo stesso territorio sono migliaia o milioni! Il convivere, ovvero il condividere un territorio, risorse materiali o simboliche, non è una sciocchezzuola, una banalità: è un miracolo, e un impegno faticosissimo e costante!

E allora, secondo me, gli antropologi dovrebbero stare lì e cercare di facilitare la riuscita del miracolo, ascoltando e mediando – al fine della sopravvivenza propria e altrui – le ragioni dell’uno e dell’altro. Prendendosi cura dell’umanità. Come uomini-medicina, come sciamani, come trickster. Come alla fine teatranti, ingannatori, cantastorie nel senso di gente che racconta delle storie: cose reali pur se sembrano invenzioni.
Compiere rituali, salmodiare, allestire scenografie fingendo che siano per gli dei quando sono per i loro simili: gli umani. Messe in scena che convincano questi ultimi che lo spettacolo è realtà. E che staranno meglio se l’attueranno anche loro nella loro vita quotidiana. E, di fatto, non sono quelli che agiscono così tra gli antropologi nostri predecessori quelli che più amiamo e cui più ci ispiriamo?

Noi antropologi pisciamo davvero corto…

Ché poi forse questo non ha comunque più senso, perché l’antropologia poteva essere questo una volta, ma ora potenzialmente siamo tutti in qualche modo ‘antropologi’: basta una buona dose di riflessività e di interesse a non foderarsi gli occhi di salame su quel che viviamo nella vita quotidiana, ai rapporti che stringiamo con gli altri esseri umani, con il nostro stesso vicino di pianerottolo che, pur abitando dirimpetto a me, ha già un’altra visione del mondo perché la sua finestra dà sì sulla medesima via ma da un altro angolo.
E allora siamo sopravvivenze che ancora cercano di farsi riconoscere la propria professionalità, fatta di letture, di metodi e tecniche, di ricerche in prima persona su tutto ciò che riescono a comprendere dell’umanità, rendendosi poi visibili e retribuibili come scrittori e letterati, come giornalisti e reporter, come artisti della parola, del gesto, dell’immagine.

Sopravvivenze in forma di idealisti e attivisti, perché vogliamo ancora in qualche maniera mettere al servizio dell’altrui e della nostra stessa esistenza ciò che l’intera storia dell’antropologia ci ha dato (o causato): una ‘sensibilità particolare’, quella della riflessività ingenua, stupefatta e magari pure un po’ scema di un bambino di cinque anni che chiede continuamente “perché?”.
Che non solo hanno amor proprio, ma sono dei veri e propri egoisti perché ‘usano’ gli altri (sebbene talvolta in modi che non per forza li cannibalizzano esageratamente: magari dando loro solo un piccolo morso) per stare bene loro.
Bulimici di vita perché curiosi innati, che ancora vogliono perdersi nell’incanto della contemplazione dell’umanità, unica soluzione che hanno individuato all’irrequietezza dell’esistenza di cui diceva Bruce Chatwin.
Che infine stanno cercando in tutti i modi di non avere un lavoro (ché “lavorare stanca“), ma avrebbero piacere di venire pagati lo stesso per le “alte missioni civili e umane” (sono ironica, eh?) cui ritengono d’essere stati chiamati: e meno ‘lavoro’ e più ‘scelta di vita’ di quanto sia l’antropologia, io non riesco a immaginare.

Già, stiamo continuando a pisciare corto, eh?…

E io rido di me, perché tutte queste amare consapevolezze le ho presenti davanti agli occhi in ogni istante, e me le vivo con follia, allegria e autoironia: mangio fasulle insalate esotiche, sono esperta di ogni bevanda ‘etnica’ del pianeta, danzo a piedi nudi in mezzo ai matti, ai senzatetto, ai tossici e ai precari (un po’ per capire cosa si prova e poi perché fa tanto bohémienne), mescolo Jack Kerouac, Werner Herzog, Oscar Wilde, Bronislaw Malinowski, Takeshi Kitano, Iggy Pop, Aruki Murakami e tutte le ispirazioni sacre e profane all’accademia, ché così mi sento snob e freak, ma pure trasparente e autentica.
E sono terrorizzata dal pensiero che mi si possa ‘comprare’ tutto questo dandomi una retribuzione in cambio del mio lavoro, perché ho il terrore di mercificare chi sono e la mia stessa vita. Altro che prostituzione, sarebbe!
Ecco: fatemi donazioni a fondo perduto piuttosto, un po’ come per i ‘tesori nazionali viventi’ giapponesi, che vengono sovvenzionati per il fatto stesso d’esistere…

Ahem, questa era troppo?…

Poco male: gli antropologi – non si fosse notato – sono i più seri dei cialtroni e pensano ancora di farla più lunga e più lontana degli altri. Ché quando permetti a tale prospettiva di entrarti dentro sul serio, questa ti devasta il tuo stesso modo di essere e di pensare, e ti porta a crederti un profeta, un veggente, un anticipatore, un saggio che aiuta l’umanità intera a comprendersi reciprocamente, a convivere gioiosamente nella diversità, e addirittura a vivere bene, felici, pieni di senso.
Come potresti pensare di rinunciarvi, o che un giorno non proverai più questo sentire che ti ha cambiato per sempre – ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu faccia?

[prima pubblicazione dicembre 2013]