The Making of a Point of View, Roma (2018)
La sottoscritta, che a volte gioca estremamente d’anticipo nell’organizzare i propri movimenti mentre altre – nota svampita! – arriva letteralmente con l’ultimo treno a vivere quel che le interessa, la scorsa settimana è stata a Roma a rifarsi gli occhi in quella meraviglia, pur perplimente il visitatore non avvezzo alle problematiche dell’allestimento di esposizioni antropologiche, che è il Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini” (anzi, ora Museo delle Civiltà).
Vi sarebbe molto da dire sia sull’accorpamento di più musei in uno unico in cui si vogliono rappresentare, per il tramite di oggetti etnografici, le diverse culture e le diverse epoche che caratterizzano le storie (al plurale!) dell’umanità, sia sulle strategie di rappresentazione nelle aree e nelle sale in corso di neo-creazione (ad esempio quella dedicata all’Oriente ove verranno ospitati gli oggetti trasferiti dal non più esistente Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci), sia infine sulla denominazione stessa del nuovo museo, che non può non provocare un gelido brivido alla colonna vertebrale di qualsiasi antropologo.
Ma soprassiedo.
Meglio invece affrontare la temporanea che – per fortuna vostra! – è stata prorogata sino al 20 maggio. “The Making of a Point of View. Sguardi sulle collezioni indonesiane e malesi” è organizzata nell’ambito del progetto europeo SWICH – Sharing a world of Inclusion, Creativity and Heritage. Swich è una iniziativa a livello europeo che vede consorziati per 4 anni dieci musei antropologici europei al fine di realizzare attività, laboratori, conferenze e progetti comuni in un’ottica di condivisione di patrimoni e saperi in cui il museo etnografico abbandona le velleità coloniali che l’avevano creato e diventa piuttosto un centro di incontro/confronto in società sempre più multi- e interculturali.
All’interno di questa volontà si situa quindi “The Making of a Point of View”, curata da Loretta Paderni e Rosa Anna Di Lella, consistente in quattro installazioni (di cui tre collaborative e una quarta realizzata invece dall’artista sino-malese H.H. Lim) che raccontano le collezioni indonesiane e malesi del museo in un modo inedito, e distante da allestimenti tradizionali.
Non mi dilungo – pur se è un piacere raro per lo sguardo – sull’architettura e la monumentalità del Museo Pigorini (io continuo a chiamarlo, almeno ancora per un po’, così), che spero possiate vivere in prima persona salendo lo scalone centrale. Voglio però sottolineare quanto il Salone delle Scienze al primo piano che alloggia la mostra sia stato perfetto per questo allestimento: area rettangolare luminosissima, è infatti pavimentato con un intarsio marmoreo dedicato alle scienze realizzato da Mario Tozzi nel 1943, che fortuitamente rappresenta anche ‘la’ base positivista e classificatoria sulla quale poggia la collezione etnografica del museo che questa mostra, mettendo in scena altre strategie espositive, mira a sovvertire.
Le quattro installazioni, infatti, pur prendendo in considerazione oggetti dalla medesima area culturale, sono completamente diverse l’una dall’altra.
La prima – mi riferisco a quella più a destra della sala una volta oltrepassata la porta d’ingresso – si intitola “Oggetti in transito: trasformazioni” e presenta il lavoro di coinvolgimento dei ragazzi del Laboratorio fotografico del Centro CivicoZero coordinati da Yves Legal, Andrea Alessandrini e Mohamed Keita (CivicoZero è una cooperativa che si occupa di ragazzi adolescenti migranti a rischio di marginalità sociale, e li coinvolge in attività quali appunto questo come altre iniziative che hanno già visto la collaborazione in passato del Museo Pigorini così come di altri musei cittadini). La rielaborazione dell’oggetto è qui di ordine artistico: gli oggetti etnografici considerati diventano strumenti di dialogo interculturale, attraverso la strategia del fotografarli e poi rielaborarne tale immagine in collage in cui i ragazzi li compongono con altri frammenti della loro esperienza della città. Gli oggetti di partenza, qui armi e scudi, vengono quindi mesi in scena insieme alle immagini che hanno ispirato nei giovani in una costruzione espositiva che deve molto alla scenografia circolare a cura di – come anche per le altre installazioni – un altro progetto sociale, la Falegnameria ed Officina Sociale K_Alma, laboratorio dal basso, totalmente autofinanziato, che mira alla formazione di richiedenti asilo ed italiani inoccupati.
Una seconda installazione, “Oggetti in diaspora: riconnessioni”, è costruita da sei strutture autoconcludentesi che restituiscono ciascuna un oggetto e il punto di vista posato su quello da parte di uno dei sei studenti indonesiani – Alessya, Anas, Isma, Evan, Viciana e Vivaldi – che hanno visitato i depositi del museo e scelto alcuni oggetti della loro area d’origine per poi raccontare storie ed esperienze personali relative, e di qui aprire eventualmente all’approfondimento, da parte di altri esponenti della comunità indonesiana, mediante video interviste e presentazioni testuali e visive.
La terza installazione, “Oggetti in dialogo: narrazioni”, presenta il punto di vista del viaggiatore-studioso Elio Modigliani che nel 1886 esplorò l’isola di Nias (Indonesia) raccontando la sua esperienza in quella che può essere considerata una delle prime monografie etnografiche: “Un viaggio a Nias” del 1890.
L’installazione consiste in un tavolo di grandi dimensioni nel quale sono incastonate vetrine con gli oggetti accanto a schede di catalogazione, fotografie (dei medesimi oggetti o del contesto culturale d’origine), appunti, lettere, a rappresentare il ‘tavolo di lavoro’ dello stesso curatore museale, e di qui il processo di creazione del percorso espositivo museografico.
La quarta installazione, infine, “Origine del dettaglio”, è un intervento artistico di H.H. Lim, risultato di una residenza al Museo delle Civiltà realizzata nel 2016-2017.
H.H. Lim prende in considerazione armi e altri oggetti di difesa, e li installa in teche di vetro la cui base è costituita da una lastra di legno massiccio ricoperto di probabile calce e quindi incisa con frasi in italiano abbastanza prive di senso (domande sui colori). L’idea di Lim, di fatto, è quella di trasmettere un altro tipo di conflitto: quello interiore della ricerca propria del processo creativo. Gli oggetti e la loro disposizione sono funzionali a questo, e l’indeterminatezza e lo smarrimento con cui vengono colti dal visitatore è coerente con l’intenzione dell’artista.
Personalmente ho trovato molto azzeccate due proposte e meno efficaci, ma comunque degne di alcune considerazioni, altre due.
“Oggetti in dialogo: narrazioni” (quella dedicata a presentare Elio Modigliani e l’isola di Nias) è quella cui mi sento più vicina, e in cui le mie diverse anime (antropologa, artista, curatrice) si ritrovano perfettamente. In questa gli sguardi che si incontrano sono solo quelli del viaggiatore di fine ‘800 e delle curatrici della mostra più d’un secolo dopo, mentre le popolazioni tra le quali sono stati raccolti informazioni e oggetti (o i loro discendenti) non vengono in alcun modo incluse (e tal esclusione, ormai, sarebbe assai discutibile in una esposizioni permanente in un museo antropologico, a meno che tal esclusione non sia funzione del particolare messaggio che l’esposizione vuole trasmettere).
Ma su quel tavolo costruito in quel modo, a questo giro, sta il procedimento produttivo del sapere antropologico e museale. Schedature, mappe, lettere, contratti, fotografie, misure, classificazioni, oggetti etnografici sono tutti materiali eterogenei che i ricercatori (gli antropologi culturali in generale, prima ancora degli antropologi museali nello specifico) raccolgono, classificano, selezionano, confrontano secondo il procedimento scientifico col quale costruiscono il proprio sapere. Con la speranza di elaborare ipotesi sul funzionamento dell’essere umano in generale.
Non solo: quel medesimo tavolo rende conto anche della natura costruttiva (e del procedimento stesso di tale costruzione) della ‘restituzione’ del sapere acquisito, secondo selezioni e accorpamenti di elementi per dare una immagine, un contenuto, una sensazione, un incontro di oggetto+contesto+discorso.
Da questo punto di vista, quindi, questa installazione è quella che sintetizza in modo chiaro ed esplicito il senso dell’intera mostra, della quale le altre tre installazioni sono concretizzazioni, sperimentazioni, articolazioni specifiche e contestuali.
Una, nella sua semplicità, è di nuovo perfettamente riuscita: “Oggetti in diaspora: riconnessioni”. Qui i sei ragazzi indonesiani invitati a partecipare sono presenze concrete, ciascuna con il proprio spazio e il proprio singolo oggetto, in piccole produzioni di breve durata facilmente godibili da qualsiasi visitatore.
Ciascun cubo di legno che alloggia le sei singole installazioni prevede oggetto (in teca) + immagine del giovane e informazioni testuali relative all’oggetto in forma di adesivo che ricopre la faccia superiore del cubo + tablet con interviste video e altri materiali. Il discorso muove dal racconto non standardizzato dei ragazzi, i cui livelli di competenza rispetto all’oggetto che hanno scelto sono diversi, così come diversi sono i modi di parlarne e di parlare della propria origine culturale, da discorsi più intimisti ad altri più descrittivi, ad altri ancora magari pure molto deficitari di informazioni. A quello si sommano le parole di persone più esperte, in forma nuovamente di interviste oppure di testi scritti accompagnati da immagini fotografiche.
L’effetto è quello di conversazioni quotidiane come quelle che potremmo avere ogni giorni fuori dagli spazi museali con persone come noi – individui che vivono una cultura senza esserne specialisti – cui se ne aggiungono altre con maggiore competenza ma sempre alla nostra portata.
La dimensione di scelta degli oggetti operata direttamente dai giovani, la visione del loro affettività nel parlarne, ci fanno chiedere chi siano i mediatori tra le diverse culture in questo caso, se gli oggetti o i ragazzi stessi, ma sciogliere questo interrogativo non è così prioritario quando l’effetto comunicativo – la trasmissione interculturale, orizzontale, del sapere su una cultura – è perfettamente riuscito.
Diverso l’esito invece delle altre due installazioni messe in scena – quelle che purtroppo (e dico ‘purtroppo’ sulla base della mia personale fiducia nelle potenzialità a più livelli della pratica artistica e del coinvolgimento sensoriale ed emotivo dei fruitori di un’opera d’arte) sono dichiaratamente rielaborazioni ‘artistiche’ degli oggetti.
“Oggetti in transito: trasformazioni” è perfettamente comprensibile nelle sue intenzioni di elaborare in tal modo gli oggetti, e i ragazzi coinvolti vi hanno lavorato certo con dedizione, ma i risultati (al di là della valenza estetica che in questo caso non è l’elemento portante su cui disquisire, e infatti non lo faccio) rimangono spesso incomprensibili. Così come le loro singole voci – che già ci dicono poco su chi siano i protagonisti, quanti, da dove, di quale età, cosa facciano, quali siano le loro esperienze, i loro desideri, cosa ci vogliano raccontare (tutte domande senza risposta) – si perdono ulteriormente in una cacofonia spesso indistinta cui contribuisce la medesima scenografia.
Più perplessità ancora mi produce infine il lavoro di H.H. Lim, che posso capire voglia restituire la sensazione della ‘tortura’ del processo di ricerca artistico, ma che a mio avviso non dovrebbe fermarsi lì: ovvero, nel momento in cui un artista esplicita un problema relativo a una pratica (in questo caso il conflitto interiore del lavoro di ricerca) usando oggetti terzi, è a mio avviso quanto meno uno spreco non essere andato oltre la rappresentazione del problema inerente la pratica di ricerca, che poteva essere sviluppato con qualsiasi oggetto di qualsiasi collezione. Le parole nel quaderno che accompagna la mostra a loro volta non forniscono dettagli utili su quest’opera, che rimane ai miei occhi un po’ priva di senso, e poco interessante.
Non fosse che su ogni cosa – e ciò è filologicamente coerente col messaggio della stessa esposizione – ciascuno il proprio sguardo e quindi qui mi permetto di vedere quel che interessa a me: la tecnica (il legno ricoperto di un qualche materiale che potrebbe appunto essere calce o similia, solidificata e quindi scolpita) e un effetto emotivo che, avvertito inizialmente prima di notare l’insensatezza delle parole scolpite, avevo trovato addirittura azzeccatissimo in relazione agli oggetti esposti (armi e corredi funebri) e quindi al tema della morte, ovvero quello della gelida lapide tombale nei classici cimiteri europei.
Al di là degli esiti diversi, e più o meno convincenti, “The Making of a Point of View” ha comunque decisamente centrato il suo obiettivo, ovvero mostrare come gli oggetti cambino a seconda dello sguardo che si posa su di loro (d’altronde proprio qui in Italia abbiamo addirittura un piccolo museo etnografico costruito esattamente su questa prospettiva, il Museo degli Sguardi di Rimini), e per questo merita la visita, e che altri punti di vista ancora – quelli dei visitatori – si sviluppino a partire dalle installazioni proposte.
Solo così gli oggetti possono rivelare tutto il proprio potenziale come ‘mediatori’ di saperi e dialoghi, e i musei antropologici trasformarsi definitivamente in centri di incontro tra culture in/per società contemporanee sempre più multiculturali.