CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Dialogare col proprio corpo come altro da sé

Il primo ricordo traumatico del mio corpo fu quando all’asilo caddi da un albero, ove m’ero arrampicata fingendo d’essere il capitano d’una nave di pirati a bordo del proprio veliero (sì, già all’epoca, è un tarlo che ho da una vita…), e mi si conficcò un rametto nella coscia che venne estratto un po’ brutalmente al pronto soccorso con tanto di sutura senza anestesia (Rambo in erba…).

Ma la prima memoria della consapevolezza del mio corpo come qualcosa di vivo, senza il quale sarei morta, avvenne in piscina.
Quel giorno, come sempre, nella scuola di nuoto stavamo facendo esercizi di riscaldamento e ricordo che in piedi stavamo piegando le braccia l’una volta l’altra, così che con la mano destra dovevo toccare il braccio sinistro e viceversa.
Ebbene, in quel momento mi resi conto – di colpo – di cosa significasse essere dotata di vita, e avere un corpo che era contemporaneamente il mio sé (la mia anima, la mia interiorità), incarnata, ma anche una cosa che potevo vedere, e che si poteva toccare dall’esterno.

Mi prese uno spavento che ricordo ancora oggi. Una consapevolezza immediata di sintesi viva – che respirava, che poteva soffrire e che un giorno si sarebbe conclusa. Quale sgomento!
Poi me ne dimenticai.

Mi ricordai tutto questo quando cominciai a stare male seriamente, e provai nuovamente quell’oscillazione tra il percepirmi come a volte sintesi di mente+anima+corpo oppure altre come mente+anima da una parte staccata dal corpo dall’altra.
E mi resi conto che dovevo in ogni caso prendermi seriamente cura del corpo, come mai avevo fatto prima. Non posso dire mens sana in corpore sano perché né l’una né l’altro potranno mai esserlo considerata la predilezione per il tormendo esistenziale e per il buon mangiare che m’accompagnano, ma sono corsa ai ripari per lo meno inventandomi strategie per cercare di tenere tutto insieme ‘bene’ (ché io di menate nella vita ne voglio fare ancora assai!).

E così ho iniziato ad ascoltare con attenzione e a parlare col mio corpo come se fosse una persona a sé. Lui mi dice cosa c’è che non va. Raramente comunica a parole. Di norma mi procura dolori diversi. A volte proprio dandomi fitte, altre volte invece con specifiche stanchezze o mal di testa che hanno sempre sfumature diverse a seconda dell’abuso alimentare o enologico del momento.
Altre volte ancora, quando sono stata ferma troppo a lungo e magari ho ripreso a fare sport da poco, mi prende per il culo con il dolore da produzione d’acido lattico e mi dice “hai voluto la bicicletta? ora pedala” (e di fatto io pedalo, sulla mia bicicletta, e continuo a farmi dei numeri per cui il cuore – che ha a sua volta una propria identità – poi litiga con i muscoli, perché lui è felice di pompare e sostenere le mie corse da monella, ma loro che si fanno un mazzo così per permettermele non vedono l’ora che io crolli da qualche parte lunga distesa a riposarmi).

Il mio corpo, poi, è felice quando gli dò delle buone sostanze. Va pazzo per pane, burro e marmellata, e quando gli mando giù lo yogurth ha la sensazione che un’esperta massaggiatrice gli stia accarezzando con dolcezza le pareti interne dello stomaco e dell’intestino.
Talvolta mi ammalo, e anche qui ho incominciato, per rendermi meno paurose le diagnosi subìte nel tempo per le cose più gravi e disparate, a visualizzarmi le situazioni, i reponsabili, i protagonisti e le vittime in termini che mi potrebbero portare – se non fosse una genialata che consiglio a tutti di fare – a un TSO da parte di questa stupida società di mediocri soldatini in cui viviamo (alè, e anche per oggi ho pagato il mio quotidiano tributo di disprezzo al mondo che mi circonda).

In pratica, io mi ‘visualizzo’ le malattie e i malanni come situazioni in cui il mio corpo diventa la casa di animaletti buffi e dispettosi, ma mai realmente malvagi, che – da veri anarchici – si prendono delle libertà a mie spese vedendo fin dove possono arrivare ad abusare della mia pazienza prima che io intervenga e li rimetta in riga.
In questo modo capita che ho quelli che chiamo “i mostriciattoli del pancino” che periodicamente danno dei party nel mio intestino con musica a tutto volume, palloncini colorati, danze sfrenate e abuso di punch.
Così come, spesso, la gola e l’esofago vengono presi di mira da batteri-squatters che non sapendo dove rifugiarsi contro il freddo mi occupano quella zona calduccia in cui di tanto in tanto possono pure afferrare – come in un paradiso terrestre – un po’ di cibo che cade direttamente dal cielo. Ragion per cui spesso vi rimangono a lungo, soppalcano addirittura lo spazio, e l’unico modo di sgomberarli è buttando loro addosso pentoloni di quella che per loro è pece, ovvero la propoli in soluzione alcolica…
Le mie ‘bimbe’, infine, sono tutte quelle celluline che di tanto in tanto, stanche dei miei maltrattamenti, perdono la voglia di vivere, si lasciano deformare dagli agenti esterni e si lasciano andare alla deriva. Sono loro che mi preoccupano di più e che di fatto tratto peggio, senza alcuna ragione. A loro chiedo perdono, ed è per questo che sto dandomi da fare per non affaticarle, e per fornire loro coccole, pulizia, balsami buoni e lenitivi, e tanto ossigeno.