CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Qualche riflessione su La grande bellezza

 

Sono passati molti mesi da quando questo film è uscito, e la sottoscritta non aveva mai trovato occasione di vederlo – pur se le numerose recensioni, di volta in volta a favore o contro, avessero suggerito alla vostra Minerva che valesse decisamente la pena vederlo e farsi la propria opinione in merito. Ragion per cui, mesi fa, ne sospesi la lettura rimandandola a quando l’avessi potuto godere in prima persona – cosa che è finalmente accaduta pochi giorni orsono.

 

Di qui, la ricerca e la lettura online ora di quelle che m’ero segnata, e l’accordo quasi completo con la recensione comparsa sui Ladri di bellezza (a opera di ganfione) a suo tempo – ragion per cui rimando a quella per tutti gli errori voluti e non voluti, la forza e la debolezza, e infine la profonda furbizia di questo film.

 

A questo punto, non posso esimermi dal dire la mia, usando in omaggio al film la prima persona singolare anziché la terza con cui talvolta scrivo – in modo tale da non rischiare di venir scambiata per l’artista demente che in apertura del film tira craniate contro pilastri mettendo in scena tutta la propria insostenibile banalità.

 

 

Ché già di qui – ferma restando la meravigliosa (e paracula, perdonatemi il termine ma trovo sia quello più idoneo a rendere l’idea) rappresentazione che ne esce di Roma – per me, per prima cosa, il film è un lavoro sulla messa in scena di sé. Abbondano, anzi tracimano le auto-rappresentazioni dei suoi protagonisti – dal giovane che si scatta una foto al giorno per decenni e poi ne allestisce l’esposizione pubblica, alla suddetta artista concettuale, alla scrittrice che si autoincensisce anche nel contesto di feste amicali di poveracci, all’autore fallito di teatro che disperatamente cerca l’occasione della vita.

 

E quindi, di fatto, io sin dall’inizio del film ho riso. Ho riso di tutti costoro.

 

E ho riso di me quando mi comporto o la penso o la vivo come costoro!

 

 

Sì, lo so che non è bello, che non avrei dovuto, che avrei magari dovuto essere solidale con la tragedia di questa umanità. Ma no, perché costoro sono così tragicamente alla deriva che non mi ci potevo immedesimare (discorso a parte per il personaggio della Ferilli, del quale dirò più avanti).

E Sorrentino, che è un furbastro, forse l’ha fatto proprio intenzionalmente a girare un film con così tanti personaggi così meravigliosamente mal riusciti – per me bozze d’esseri umani nella vita così come sullo schermo.

 

 

Per questo, invece ho piuttosto riso con Jep Gambardella (Toni Servillo), che è un incanto d’eccesso, menefreghismo e distanza da tutti gli altri sin dalla sua entrata in scena – così sensibile solo verso se stesso (d’altronde “vi sono sensibili furbi e sensibili scemi”, diceva già Snoopy in una delle famose strisce), alla deriva come gli altri, ancora lì a perdersi nel ricordo del primo amore, ma con la stessa attitudine superficiale, la stessa espressione in viso, e quindi la stessa credibilità con cui conforta la vedova per la perdita del consorte.

 

Jep è almeno in parte incarnazione signorile della bruttezza a oltranza – per converso rispetto al titolo del film – pure davanti alla morte, in un alternarsi inesauribile tra finzione, auto ed etero messa in scena, vacuità e perversione: tutte maschere per fuggire continuamente la paura.

 

 

Eppure Jep, per come lo ‘sento’ io, è un bellissimo e completo personaggio proprio perché in sé incarna tante contrapposizioni che lo rendono umano e divino al tempo stesso: ama l’ – dice – e non sappiamo se credergli o meno visto che quell’odore lo conosciamo bene come ‘anticamera della morte’ (qualcosa che tanto bella, come esperienza, magari non è, eh?), e la sua non è malinconica rimembranza del primo amore quanto della giovinezza e di un rapporto col tempo che ora si conta non più come apertura e potenzialità, bensì come anni di vita rimanenti.

Per non dire della sua disperata ricerca di confronto sul senso dell’esistenza continuamente frustrata dalle autorità religiose – patetiche e mediocri addirittura più degli altri personaggi tossici e caciaroni di cui pullula il film.

 

 

In sintesi, Jep è grottescamente gaudente del suo stesso squallore, dell’imperfezione della sua condizione umana, e per questo in lui c’è una profonda purezza. La stessa del personaggio appena accennato di Ramona – il suo contraltare femminile (ragion per cui mi ci sono immedesimata) – che, sebbene non sviluppato in modo accettabile (e qui sì l’errore è non voluto ed è macroscopico da parte della sceneggiatura), ha come elementi significativi il pari pensare solo a se stessa, il sospendere il giudizio sugli altri, l’incarnare dignitosamente la sua deriva personale e il lasciarsi incantare e ridere con lui della bellezza nottura della quale possono beneficiare grazie all’uomo che ‘custodisce le chiavi’ dei più bei palazzi romani.