CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Alain Badiou: Tunisia, Egitto: quando un vento dell’est spazza via l’arroganza dell’Occidente

Riporto integralmente, perché dà corpo all’insieme di riflessioni, dubbi, e sensazioni contraddittorie che sto provando, un articolo segnalato nel blog incidenze consistente nella riflessione del filosofo francese Alain Badiou sui fatti in corso in queste settimane. Buona lettura, e buona rifessione.

Articolo tratto da Le Monde e tradotto dalla redazione di ZIC.

 

Il vento dell’est vince sul vento dell’ovest. Fino a quando
l’Occidente inattivo e crepuscolare, la “comunità internazionale” di
coloro i quali si credono ancora i padroni del mondo, continueranno a
dare lezioni di buona gestione e di buona condotta alla terra intera?
Non è risibile vedere quegli intellettuali di servizio, soldati allo
sbando del capitalo-parlamentarismo che ci mantiene in questo paradiso
tarlato, fare dono delle loro persone ai magnifici popoli tunisino e
egiziano, al fine di insegnare a questi popoli selvaggi l’a,b,c della
democrazia? Che desolante persistenza dell’arroganza coloniale! Nella
situazione di miseria politica che è la nostra da almeno tre decenni,
non è ancora evidente che siamo noi ad aver tutto da imparare dai
sollevamenti popolari del momento? Non dobbiamo forse studiare, in tutta
urgenza e da vicino, tutto ciò che, laggiù, ha reso possibile il
rovesciamento attraverso l’azione collettiva di governi oligarchici,
corrotti e inoltre – e forse soprattutto – in situazione di vassallaggio
umiliante nei confronti degli Stati Occidentali?

Si, noi dobbiamo essere gli scolari di questi movimenti, e non i loro
stupidi professori. Poiché essi danno vita, nel genio delle loro
invenzioni, ad alcuni principi della politica dei quali si cerca da
tempo di convincerci che sono morti e desueti. E in particolare a questo
principio che Marat non smetteva di ricordare: quando si tratta di
libertà, di eguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle
rivolte popolari.

Si ha ragione a rivoltarsi. Così come la politica, i nostri Stati e
quelli che li ostentano (partiti, sindacati e intellettuali servili)
preferiscono la gestione, così alla rivolta preferiscono la
rivendicazione, e a ogni rottura la “transizione ordinata”. Quello che i
popoli egiziani e tunisini ci ricordano, è che la solo azione che sia
all’altezza di un sentimento condiviso di occupazione scandalosa del
potere di Stato è la levata in massa. E che in questo caso, la sola
parola d’ordine che possa federare le diverse componenti della folla è:
“Tu che sei là, vattene!” (Que se vayan todos!). L’importanza
eccezionale della rivolta, in questo caso, la sua potenza critica è che
la parola d’ordine ripetuta da milioni di persone da la misura di quella
che sarà, senza dubbio e irreversibilmente, la prima vittoria: la fuga
dell’uomo così designato. E qualunque cosa accada in seguito, questo
trionfo, illegale per natura, dell’azione popolare sarà per sempre
vittorioso. Ora, che una rivolta contro il potere dello Stato potesse
essere assolutamente vittoriosa è un insegnamento dalla portata
universale. Questa vittoria indica sempre l’orizzonte sul quale si
distacca qualsiasi azione collettiva sottratta all’autorità della legge,
quello che Marx ha chiamato “l’estinzione dello Stato”.

Ci fa sapere che un giorno, liberamente associati nello sviluppo
della potenza creatrice che è la loro, i popoli potranno fare a meno
della funebre coercizione statale. E’ proprio per questo, per quest’idea
ultima, che una rivolta che abbatte l’autorità costituita scatena un
entusiasmo senza limiti nel mondo intero.

Una scintilla può dare fuoco alla pianura. Tutto comincia dal
suicidio di fuoco di un uomo ridotto in disoccupazione, al quale si
vuole interdire il miserabile commercio che gli permette di
sopravvivere, e che una donna-poliziotto schiaffeggia per fargli
comprendere quello che, a questo mondo, è reale. Il gesto si allarga in
qualche giorno, settimane, fino a milioni di persone che gridano la loro
gioia in una piazza lontana e alla partenza di potenti potentati. Da
dove viene questa espansione fantastica? La propagazione di un’epidemia
di libertà? No. Come dice poeticamente Jean-Marie Gleize, “un movimento
rivoluzionario non si diffonde per contaminazione. Ma per risonanza.
Qualcosa che si produce qui risuona attraverso l’onda di shock emessa da
qualche cosa che si è prodotta laggiù”. Questa risonanza, chiamiamola
“evento”. L’evento è la brusca creazione, non di una nuova realtà, ma di
una miriade di nuove possibilità.

Nessuna di esse è la semplice ripetizione di ciò che già si conosce.
Ed ecco perché è oscurantista dire “questo movimento reclama la
democrazia” (sottointeso, quella di cui noi godiamo in Occidente),
oppure “questo movimento reclama un miglioramento sociale” (sottinteso,
la prosperità media del nostro piccolo-borghese). Partita da quasi
niente, risuonata ovunque, la sollevazione popolare crea per il mondo
intero delle possibilità sconosciute. La parola “democrazia” non viene
praticamente pronunciata in Egitto. Si parla di “nuovo Egitto”, di “vero
popolo egiziano”, di assemblea costituente, di cambiamento assoluto
dell’esistenza, di possibilità inaudite e prima sconosciute. Si tratta
della nuova pianura che verrà al posto di quella che ha preso fuoco
grazie alla scintilla della sollevazione. E si mantiene, questa pianura a
venire, tra la dichiarazione di un rovesciamento delle forze e quella
di una presa in mano di compiti nuovi. Tra quello che ha detto un
giovane tunisino: “Noi, figli di operai e di contadini, siamo più forti
che i criminali”; e quello che ha detto un giovane egiziano: “A partire
da oggi, 25 Gennaio, io prendo in mano gli affari del mio Paese”.

Il popolo, il popolo è il solo creatore della storia universale.
Colpisce molto che nel nostro Occidente i governi e i media considerano
che le rivolte di una piazza del Cairo siano “il popolo egiziano”. Cosa?
Il popola, il solo popolo ragionevole e legale, per queste persone, non
era di solito ridotto o alla maggioranza di un sondaggio oppure a
quella di un’elezione? Com’è che così, d’improvviso, centinaia di
migliaia di ribelli siano rappresentativi di un popolo di 80 milioni di
persone? Questa è una lezione da non dimenticare, che noi non
dimenticheremo.

Passata una certa soglia di determinazione, di ostinazione e di
coraggio, il popolo può in effetti concentrare la propria esistenza su
una piazza, una strada, qualche fabbrica, un’università… Il mondo intero
sarà testimone di quel coraggio e soprattutto delle stupefacenti
creazioni che l’accompagnano. Queste creazioni avranno valore di prova
del fatto che il popolo si mantiene là. Come ha detto fortemente
manifestante egiziano: “prima io guardavo la televisione, ora è la
televisione che guarda me”.

RISOLVERE DEI PROBLEMI SENZA L’AIUTO DELLO STATO

Nella calca di un evento, il popolo si compone di coloro i quali
sanno risolvere i problemi che l’evento stesso pone loro. Come
l’occupazione di una piazza: mangiare, dormire, guardia, bandiere e
striscioni, preghiere, combattimento difensivo, tali che il luogo in cui
tutto accade, il luogo divenuto simbolo, sia conservato dal suo popolo,
ad ogni prezzo. Problemi che, su scala di centinaia di migliaia di
persone venute da ogni parte, parrebbero irrisolvibili, a cui è da
aggiungere il fatto che su quella piazza lo Stato è sparito. Risolvere
senza l’aiuto dello Stato dei problemi irrisolvibili, è questo il
destino di un evento. Ed è ciò che fa si che un popolo, all’improvviso, e
per un tempo indeterminato, esista, là dove esso stesso ha deciso di
riunirsi.

Senza movimento comunista, niente comunismo. La sollevazione popolare
di cui parliamo è manifestamente senza partito, senza organizzazione
egemonica, senza dirigenti riconosciuti. Verrà sempre il tempo di
misurare se questa caratteristica sia stata una forza o una debolezza. E
in ogni caso è proprio questo che ha fatto sì che ci siano stato, in
forma veramente pura, senza dubbio la più pura dopo la Comune di Parigi,
tutti i tratti di quello che bisogna chiamare un “comunismo di
movimento”. “Comunismo” vuol dire qui: creazione in comune del destino
collettivo. Questo “comune” ha due assi particolari. Prima di tutto, è
generico, rappresentante, in un luogo, l’umanità nella sua interezza. In
questo luogo, ci sono tutti i tipi di gente di cui un popolo si
compone, ogni parola è ascoltata, ogni proposta esaminata, ogni
difficoltà trattata per quella che è. E poi, il comune sormonta tutte le
grandi contraddizioni di cui lo Stato pretende di essere il solo a
poter gestire, senza mai oltrepassarle: tra intellettuale e manuale, tra
uomo e donna, tra povero e ricco, tra musulmano e copto, tra genti di
provincia e genti della capitale…

Migliaia di possibilità nuove, riguardanti queste contraddizioni,
sorgono ad ogni momento, alle quali lo Stato – ogni Stato – è
interamente cieco. Si vedono delle giovani dottoresse venute dalla
provincia per curare i feriti dormire in mezzo ad un cerchio di giovani
selvaggi, e sono più tranquille che mai, sanno che nessun toccherà loro
neanche la punta di un capello. Si vede pure un’organizzazione di
ingegneri rivolgersi ai giovani banlieusards per supplicarli di tenere
la piazza, di proteggere il movimento con la loro energia nel
combattimento. Si vede, ancora, una fila di cristiani appostata, in
piedi, per vegliare sui musulmani piegati in preghiera. Si vedono i
commercianti dare da mangiare ai disoccupati ed ai poveri. Si vede
ciascuno parlare ai propri vicini sconosciuti. Si leggono mille cartelli
in cui la vita di ognuno si mischia senza distacco alla grande Storia
di tutti. L’insieme di queste situazioni, di queste invenzioni,
costituiscono il comunismo del movimento. Ed ecco che da due secoli il
problema politico unico è questo: come stabilizzare in durata le
invenzioni del comunismo del movimento? E l’unico enunciato reazionario
sta in : “questo è impossibile, o nocivo. Affidiamoci allo Stato”.
Gloria ai popoli tunisini ed egiziani che ci riportano al vero e unico
dovere politico: di fronte allo Stato, la fedeltà organizzata al
comunismo del movimento.

Noi non vogliamo la guerra, ma non ne abbiamo paura. Si è parlato
ovunque della calma pacifica delle manifestazioni gigantesche, e si è
legata questa calma all’ideale di democrazia elettiva che si prestava al
movimento. Nonostante ciò, constatiamo che ci sono state centinaia di
morti, e che ce ne sono ancora ogni giorno. In molti casi, questi morti
sono dei combattenti e dei martiri dell’iniziativa, poi della protezione
del movimento stesso. I luoghi politici e simbolici della sollevazione
hanno dovuto essere mantenuti al prezzo di combattimenti feroci contro i
miliziani e le polizie dei regimi minacciati. E là, chi ha pagato con
la vita se non i giovani provenienti dalle popolazioni più povere? Le
classi medie, delle quali la nostra Michèle Alliot-Marie (ministro degli
Esteri francese, ndTr), ha detto che lo sbocco democratico della
sequenza in corso dipende da loro e solo da loro, si ricordino che, nel
momento cruciale, la durata della sollevazione è stata garantita
esclusivamente dall’impegno senza riserve dei distaccamenti popolari. La
violenza difensiva è inevitabile. Essa prosegue, del resto, nelle
condizioni difficili in Tunisia, dopo che si sono rinviati alle loro
miserie i giovani attivisti delle province.

E possiamo seriamente pensare che queste innumerevoli iniziative e
questi sacrifici crudeli abbiamo come solo scopo fondamentale di
condurre le persone a scegliere tra Souleimane e El Baradei, come da noi
ci rassegniamo pietosamente a scegliere tra Sarkozy e Strauss-Kahn (o
tra un Bersani-Vendola-Fini e Berlusconin, ndTr) ? Questa è l’unica
lezione di questo intero splendido episodio?

No, mille volte no! I popoli tunisini ed egiziani ci dicono:
sollevarsi, costruire il luogo pubblico del comunismo del movimento,
difenderlo con tutti i mezzi, inventando là tutte le tappe successive
dell’azione, questo è la realtà della politica popolare di
emancipazione. E non è in dubbio il fatto che gli Stati dei Paesi arabi
siano anti-popolari e, in fondo, elezioni o no, illegittimi. Quale che
sia il loro divenire, le sollevazioni tunisine ed egiziane hanno un
significato universale. Essi prescrivono delle possibilità nuove il cui
valore è internazionale.

Alain Badiou, filosofo

Traduzione italiana di Dario Gaglione