CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Nomadismo, displacement e identità

Non è la prima volta che per studio o lavoro mi trasferisco – in particolare all’estero – per un certo tempo. Già in passato sono stata via mesi affittando casa e facendo nuove conoscenze, dovendo parlare in un’altra lingua e mangiare cibi che non erano quelli cui ero abituata.
In ogni luogo osservo persone e comportamenti – cerco di intuire l’anima del posto, l’atmosfera locale, il ritmo di vita della gente. Se non fossi così curiosa – e non amassi tanto espormi all’alterità – non avrei scelto come senso della mia vita quello che è il lavoro più bello del mondo.
Immancabilmente, però, capita che arrivi il momento in cui non so più chi io sia né dove mi trovi.
Uno spaesamento in termini di sensazione d’essere ‘fuori luogo’ – una condizione in cui non sei più la persona che sta viaggiando, ma neanche colei che appartiene realmente e pienamente al posto nuovo.
Uno sgradevole limbo determinato dalla negazione d’una precisa collocazione fisica, emotiva ed esperienziale di sé. Chi esperisce questa condizione sa bene cosa significhi avere contemporanea consapevolezza di sé come 1) persona reale, concreta, in carne e ossa, che sta vivendo altrove rispetto al paese d’origine e come 2) altro sé (una sorta di ombra o di ologramma di sé), identico a noi, che nella nostra immaginazione vivrebbe ancora nel paese d’origine e farebbe ogni giorno quelle cose che facevamo quando eravamo lì.
Dissociati – tali ci si sente. Privi di – e staccati da – la propria ombra, come se una forbice fosse intervenuta dall’alto a tagliare in due la tua persona.
E questa sensazione è la cosa che più m’inquieta, ogni volta.
Il giovane che comincia la propria vita viaggiando all’estero non ancora ventenne e non radicandosi in alcun luogo forma nel nomadismo il proprio essere, la propria visione del mondo, le proprie categorie interpretative di questo. La sua identità è una sorta di ‘patchwork’, nella quale confluiscono suggestioni che originano da contesti culturali diversi e che spesso sorprende gli stanziali per la libertà, l’elasticità, la versatilità delle connessioni dalle quali è costituita.
Eppure non è tutto rose e fiori: spesso, le stesse persone, abituate come sono a ‘guardare dall’alto’, ovvero a volo d’uccello e di qui comparativamente, perdono elementi essenziali delle situazioni locali specifiche – anche solo perché non vi risiedono per periodi abbastanza lunghi da poterle comprendere profondamente.
Per chi invece è più avanti negli anni, il viaggio e il nomadismo presentano ancora quegli elementi d’attrattiva, passione e piacere che si provavano in passato, ma si innestano su una persona ormai ‘strutturata’ come tale. Le categorie interpretative sono già formate su una base più unitaria già in partenza (ovvero più radicata nel contesto culturale esperito per più anni e quindi con una minore sintesi di elementi distanti nello pazio) e – a meno che si non abbia un’illuminazione sulla via di Damasco, cosa che può sempre avvenire – queste cambieranno lentamente e per sfumature sulla base delle nuove esperienze.
Per quanto quindi ami il cambiare cibo e atmosfera ogni giorno, il viaggiare leggera, il non comprendere mai pienamente l’ambiente sonoro che mi circonda e l’espormi a persone e percezioni sensoriali stranianti, sono ben consapevole che tutto ciò è una scelta che sta nella volontà di vivere la dimensione della folle ebbrezza e del farmi investire dai fenomeni pur con la sicurezza che sarà una corsa di durata breve in ogni luogo, supportata parimenti da un limite temporale ben chiaro e già deciso.
Una sorta di furbesco ‘nomadismo a termine’ – il mio – lo ammetto.
Diverso è il caso, invece, del muoversi per un progetto specifico in un luogo straniero senza possibilità di fuga, con un lavoro specifico da realizzare, costretti a stare fermi in un singolo posto: diventare stanziali in un altrove. Qui quel ‘displacement’ di cui parlavo prende drammaticamente forma, e a me personalmente inquieta assai.
Dev’essere per questo che, quando lo vivo, porto con me elementi simbolici di me stessa, del mio passato, della mia memoria, e me li dispongo visivamente davanti in modo tale da non perdere queste sorte di ‘punti di riferimento’ (un po’ come ai malati di Alzheimer si mettono orologi in ogni parte della casa).
Appendo alle pareti flyer di concerti cui ho partecipato, locandine cinematografiche di film che ho visto, manifesti di eventi e iniziative in cui ho lavorato – la mia memoria deve stare lì, sempre davanti ai miei occhi, in modo tale che lo sguardo, vagando, non mi restituisca mai la sensazione di vuoto esperienziale, la sensazione di non aver avuto un passato, la mancanza di una personale memoria (“conserva le prove che sei esistito”). Mi terrorizza l’idea che la mia ombra si stacchi da me – ed è come se sentissi la necessità di una tana che custodisca l’interezza della mia persona.
Ma se questo s’è espresso sinora esclusivamente a livello visivo, di recente mi sono resa conto che tutti i campi della memoria sensoriale vogliono trovare posto accanto a quelli nuovi dei quali faccio esperienza. E, visto che ormai so come il giochetto funziona, parimenti non temo più la loro condivisione con i miei nuovi conoscenti – impegnati anch’essi nella propria ricerca di equilibrio tra identità pregressa e accoglienza di nuove suggestioni.
Di qui il rendersi reciprocamente edotti sulla musica che ti dà la sensazione di ‘casa’, così come sulla propria lingua (entrambe afferenti all’ambiente sonoro in cui siamo cresciuti), o – capitolo altrettanto prezioso – sul cibo e sulle tecniche della sua preparazione, così come il disquisire, a un livello più alto, dei punti di riferimento in base ai quali si orientano la propria esistenza e le proprie scelte.
Io so che devo fare attenzione – nel mio amore per la vita e nella mia curiosità verso nuove esperienze – a non farmi risucchiare da spirali sconosciute in cui mi inoltro fiduciosa e ingenua facendomene assorbire e metabolizzare.
Per questo ci tengo tanto a mettere in scena per me gli elementi della mia persona.