CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Riprenderci la bellezza che ci appartiene (e senza discussioni, ché era ‘dignità’)

Scendo giù a comprare un litro di latte, e – vista la bella giornata – mi risolvo a fare due passi anziché prendere la bici. La doccia l’ho fatta, i denti li ho lavati, i capelli se ne stanno tranquilli raccolti con le mollette. Senza trucco – ma senza per questo essere sciatta – indosso un vestito semplice e comincio a camminare. Per strada, come qualsiasi donna, mi specchio nelle vetrate degli androni dei palazzi per controllare d’avere un aspetto ‘presentabile’ e tutto sommato me lo riconosco – pur senza troppe pretese. Che sceme siamo noi donne a volte, eh? Facciamo tutto da sole…

 

Mi vengono incontro in due momenti diversi due uomini che non avranno molti più anni di me, eppure sono già ‘rovinati’. E subitaneamente provo disgusto per me stessa e per questo mio giudizio impietoso, severo, squallido. Me lo dico da sola: “Vergognati! Proprio tu che non hai mai guardato più di tanto all’estetica, in un uomo, così come poco interesse hai per la cosa riguardo te stessa e una volta che sei pulita ti ritieni a posto. Perché sei così infastidita dalla visione di questi uomini? Cosa ti dà tanto in testa, razza di patetica superficiale?”.

 

Eppure è ciò che provo, e a pensarci bene mi capita sempre più spesso, perché sempre più spesso vedo caratteristiche somatiche e posturali simili che sono la rappresentazione vivente dell’essere all’ultima spiaggia esistenziale: facce solcate da rughe di fatica e depressione e non di vecchiaia, bruciate dal sole o al contrario butterate da incuria e giallognole da assenza di luce, posture ricurve, quasi gobbe, come se queste persone camminassero un po’ di profilo e con un passo
trascinato. Un aspetto ‘alla deriva’ – sporco e privo di qualsiasi minima attenzione a sé – che s’accompagna a parlate biascicate.

Nell’ultimo paio d’anni, poi, dall’alto del mio quarto piano guardo la strada sotto, e non c’è giorno o notte in cui non passi qualcuno con una bici, e un carretto attaccato a quella, ed entri con metà del corpo dentro il cassonetto dell’immondizia alla ricerca di qualcosa che si possa trasformare in una monetina. Tutto il giorno va avanti così, e io ripenso a quando ne vedevo uno al mese e già mi si stringeva il cuore, mentre ora sono più d’uno al giorno – così tanti che lo strazio è continuo.

 

Negli ultimi tempi, infine, sono andata una sola volta al mercatino dell’usato – quello che in passato era gestito da un’associazione di quartiere che, per quanto in malafede e protettiva verso gli ‘amici degli ‘amici’, supervisionava ancora all’assegnazione degli spazi imponendo una certa cura per le cose vendute e la loro modalità d’esposizione. Ora che la miseria è così dilagante, orde di nuovi disperati hanno completamente travolto e rovesciato tutto questo, e la fame e la disperazione non distinguono più oggetto vecchio, ma riutilizzabile dignitosamente, e marcia immondizia che abbrutisce chi la raccatta o poi addirittura l’acquista.

 

Cosa voglio dire con questi tre esempi?

 

Ebbene – premesso che sono abituata a esercitare un certo relativismo critico, e pertanto a
ritenere che non tutti abbiamo le stesse percezioni e le stesse ragioni di felicità, così come che ciò che associamo alla ‘bellezza’ e al ‘piacere’ possono essere cose molto diverse – quando vedo ormai così tante persone

 

    • chiedere l’elemosina o rovistare con metà del corpo dentro un cassonetto dei rifiuti,
    • camminare ricurve, vuoi per la stanchezza o per una ormai cronica sensazione psicologica di sconfitta,
    • non lavarsi magari neanche più perché si ritiene che non valga più la pena prendersi cura di sé,
    • o infine gettare cose già rotte, consunte, inutilizzabili malamente per terra, come se non avessero un’anima o una storia e quindi senza cura di rispettare un minimo la dignità di chi le ha possedute in precedenza e di chi le acquisterà,

 

io penso che non ci sia relativismo che tenga: queste sono cose brutte, povere, misere, perverse, disumane.

Per quanto siano diverse le modalità in cui la decliniano, infatti, ciò che penso è che gli esseri umani abbiano comunque un’attitudine alla ‘bellezza’ che in qualche modo coincide con la cura di sé, degli altri, e di tutto ciò che sta nelle relazioni tra tali interlocutori (cose, ambienti, contesti ecc.).

 

Una delle cose più violente che abbiamo subìto in questi anni è quindi, per me, essere stati soggetti al furto di questa attitudine alla bellezza – quasi non meritassimo viverla, non ne fossimo degni, o questa (perversione ancora più incredibile!) coincidesse addirittura in altro che non la nostra dignità, la nostra educazione, il nostro rispetto di noi stessi e della preziosità delle nostre vite, il nostro orgoglio, la cura verso noi stessi e verso gli altri.

 

Tra le varie colpe che quell’1% dovrebbe pagare, io ci metterei anche questa: quella d’averci derubato di tutto questo, di averci imposto modelli che spacciavano per ‘bellezza’ quello che era puro orrore proprio per ridurci a schiavi e bestie che per sopravvivere si nutrono di immondizia e cadaveri, e infine d’averci condannato all’inaudita fatica di doverci addirittura fare un contro-lavaggio del cervello quotidiano da soli per ricordare a noi stessi e agli altri che vale la pena lavarci e indossare un sorriso (anche di vendetta e strafottenza, a questo punto), camminare a testa alta e busto eretto, e trattare ancora bene cose e persone in quanto vittime come noi della medesima violenza – quella d’averci fatto credere, in sintesi, che non meritassimo di stare al mondo e che al limite fossimo qui con la funzione di ‘carne da macello’.