Riprenderci la bellezza che ci appartiene (e senza discussioni, ché era ‘dignità’)
8 Luglio 2013
Eppure è ciò che provo, e a pensarci bene mi capita sempre più spesso, perché sempre più spesso vedo caratteristiche somatiche e posturali simili che sono la rappresentazione vivente dell’essere all’ultima spiaggia esistenziale: facce solcate da rughe di fatica e depressione e non di vecchiaia, bruciate dal sole o al contrario butterate da incuria e giallognole da assenza di luce, posture ricurve, quasi gobbe, come se queste persone camminassero un po’ di profilo e con un passo
trascinato. Un aspetto ‘alla deriva’ – sporco e privo di qualsiasi minima attenzione a sé – che s’accompagna a parlate biascicate.
ritenere che non tutti abbiamo le stesse percezioni e le stesse ragioni di felicità, così come che ciò che associamo alla ‘bellezza’ e al ‘piacere’ possono essere cose molto diverse – quando vedo ormai così tante persone
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- chiedere l’elemosina o rovistare con metà del corpo dentro un cassonetto dei rifiuti,
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- camminare ricurve, vuoi per la stanchezza o per una ormai cronica sensazione psicologica di sconfitta,
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- non lavarsi magari neanche più perché si ritiene che non valga più la pena prendersi cura di sé,
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- o infine gettare cose già rotte, consunte, inutilizzabili malamente per terra, come se non avessero un’anima o una storia e quindi senza cura di rispettare un minimo la dignità di chi le ha possedute in precedenza e di chi le acquisterà,
Per quanto siano diverse le modalità in cui la decliniano, infatti, ciò che penso è che gli esseri umani abbiano comunque un’attitudine alla ‘bellezza’ che in qualche modo coincide con la cura di sé, degli altri, e di tutto ciò che sta nelle relazioni tra tali interlocutori (cose, ambienti, contesti ecc.).