Ritratti tra realtà e desiderio: Apagya e la fotografia in Ghana
1 Novembre 2013
L’antropologo Tobias Wendl nel 1998 realizza il documentario sul fotografo (e artista) ghanese Philip Kwame Apagya, cogliendo l’occasione per discutere in generale delle arti visive ghanesi (cui si dedica anche Roberta Altin che nel 2004 pubblica in merito il volume L’identità mediata).

Le sue foto ritraggono i clienti su uno sfondo colorato dipinto a mano dall’artista. Il senso è quello di veder riprodotti e stampati sulla pellicola fotografica il loro ritratto assieme ai loro sogni: c’è la massaia con la ‘sua’ casa con tanto di televisore a colori, di registratore Ivc, una pila di cassette Tdk, un orologio elettrico, un telefono cordless, uno stereo, delle casse, dei bei bicchieri, qualche bottiglia di liquore, il ventilatore, un frigo ben fornito (scatolame, birra, uova, frutta, verdura, un cocomero, ma soprattutto soft drink con etichette colorate delle multinazionali). Per altri clienti ci sono altri desideri: le scalette del Boeing della Ghana Airways su cui mettersi in posa per salire, o la Mecca ‘virtuale’ dinanzi cui inginocchiarsi.
Le scenografie e i fondali vengono definiti da Apagya come ‘pitture primitive’, anche se ai nostri occhi possono sembrare piuttosto simili a fumetti o a murales. Ma di ‘primitivo’ in quelle scenografie non c’è nulla: le persone in posa sono gli unici elementi reali della foto, tutto il resto sono i loro sogni e desideri – desideri legati all’Occidente e alla contemporaneità.
I critici d’arte contemporanea hanno definito l’opera di Apagya ‘iper-realista’ e ‘surrealista’: se la leggiamo con uno sguardo antropologico si rivela un’auto-rappresentazione estremamente originale della cultura popolare nell’Africa di oggi, alimentata dai contatti con i beni di consumo occidentale, che arrivano dalle immagini dei mass media e da foto, video e racconti di parenti e amici emigrati – così che i temi sviluppati sono prevalentemente tecnologie per comunicare (videoregistratore, televisore, videocassette, cordless) e per emigrare (aereo).
La risposta ghanese esprime una rielaborazione dei contatti con le altre culture e con la contemporaneità che non ripiega nell’assimilazione in blocco, ma nemmeno si rifugia nelle riserve etniche tradizionali. Rivela un’interpretazione ghanese dell’idea di modernità che è desiderata, ma contemporaneamente anche ritoccata con toni scherzosi.
L’originalità locale è anche quella di riuscire a mettere in scena questi ‘simulacri di realtà’ senza avere a disposizione né computer, né software per simulazioni digitali, solo una macchina fotografica analogica e una tela da dipingere, e di riuscire ad esprimerli con le loro estetiche e il loro tipico humour, perché in Africa nessuno è tanto ingenuo da farsi ingannare dal trompe l’oeil. Spiega Edgar Roskis che le scenografie di Apagya sono concepite come un “perpetuo gioco di intenzioni e di illusioni, ma che qui vengono enunciate come tali. Egli mescola, nel fondo […] il desiderio dell’operatore e quello del soggetto che può, senza muovere un passo, starsene in una Manhattan luccicante come un juke-box” [Roskis (1999), L’atelier delle illusioni, http://www.mondediplomatique.fr].
Di seguito, il trailer del documentario.
Buona visione! 🙂