“Qui nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico” – ho sentito nuovamente qualche giorno fa questa frase pronunciata dalla voce lenta e depressa del Cheyenne di This must be the place. E ho avuto nuovamente una crisi di rigetto.
Perché io non conosco le condizioni in cui viene pronunciata nel film, ma sempre più – essendo circondata da ‘artisti’ (o sedicenti tali) – questi operano una distinzione tra sé e il resto del mondo per cui veramente pronuncerebbero tali parole con il più truce e offensivo snobismo nei confronti altrui. Convinti della giustezza, plausibilità e assolutezza di tale affermazione e distinzione.
La quale si porta dietro – sempre – ragioni di ordine economico: gli artisti hanno diritto a venire pagati per l’esercizio della loro arte – in quanto nel loro caso è lavoro – dal resto della società, la quale, invece, se ha piacere di esprimersi in qualche modo sarà sempre relegata all’esercizio della pratica artistica in modo amatoriale, hobbistico, con contenuti e produzioni per forza di serie B perché così altri (la critica, il mercato) hanno deciso.
Ecco, anche no.
Non è che personalmente io abbia sempre più dubbi e difficoltà nel riconoscere un qualche valore distintivo in chi si definisce in ruoli che hanno a che fare con l’arte, ma è proprio che la presunta professionalizzazione di tali ruoli, di fatto, è propria d’un certo mondo occidentale che emerge in un ben definito periodo storico in Europa in relazione alla dimensione delle accademie di formazione alla stessa, della critica e del mercato.
Quindi ce n’è già per dubitare del valore, in particolare se assolutizzato/universalizzato, di qualsiasi discorso in merito.
In tutto il resto delle culture umane del mondo tal distinzione non esiste sin quando la critica d’arte Occidentale e l’espansione del mercato (nuovamente Occidentale) non le raggiungono e vi impongono le proprie categorie interpretative (con relativi strafalcioni nell’incomprensione che ogni volta che come antropologa li vedo in atto mi fanno tanto, tanto ridere, perché proprio solo dettati dalla presunzione).
![](http://www.cristinabalmativola.it/wp-content/uploads/2017/10/85553-eskimo-artist-kenojuak_blog-590x267.jpg)
Tutti, in contesti extra-occidentali, imparano le tecniche, perché – premessa comune a tutta l’umanità – tutti hanno un proprio senso estetico, e tutti potrebbero aver qualcosa da dire e condividere. Allo stesso modo, accademie di formazione, critica e mercato sono stati e sono tutt’ora responsabili della deriva agghiacciante di forzare, vincolare, ridurre le potenzialità di godimento umane indicando cosa debba essere considerato bello e cosa no.
Mi viene la pelle d’oca ogni volta che sento un critico o un artista dire di qualche lavoro che sarebbe “brutto”. Il relativismo l’avete mai sentita come prospettiva? Evidentemente no. Ecco, allora, studiate – voi sì – studiate, allargate la vostra conoscenza del resto del mondo prima di pronunciarvi!
Di fatto, la necessità di espressione di sé attraverso forme che ci facciano provare piacere e che facciano provare piacere ad altri essere umani è propria della nostra specie, così che castrarla, ridurla, negarla a chi non avrebbe competenze riconosciute (e, come detto sopra, riconosciute da chi e in base a quali parametri assoluti?) è un atto di violenza e un sopruso.
D’accordo con Joseph Beuys, per me ogni uomo (e ogni donna) è un artista, poiché chiunque deve poter lavorare alla comprensione – e di qui al rinnovamento con la propria azione creatrice (in qualsiasi ambito e modo questa si concretizzi) – di sé e della realtà.
Quindi bene: qui nessuno lavora più. Perfetto: magari sarà la volta buona che ci metteremo a lavorare tutti per sopravvivere. Tutti allo stesso livello, nella medesima quantità/qualità: non alcuni più furbi e altri meno, alcuni più fortunati e altri meno, per cui i secondi devono morire con lavori faticosi, pesanti, umilianti mentre i primi – i sedicenti artisti o coloro che qualche critico o mercante ha definito tali – stanno lì sereni a lanciare proclami contro la società cattiva che non li sostiene economicamente abbastanza!
Fare arte, parlarne, promuovere riflessioni, visualizzazioni, verbalizzazioni, sonorizzazioni del/dal nostro essere umani non è (solo) lavoro. E’ l’urgenza dell’essere nel mondo, e dello stare in relazione con altri che provano la stessa istanza – qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno.
E che tutti dovremmo poter fare, senza dover patire l’essere categorizzati come di serie B nel momento in cui vi ci dedichiamo!