CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Etnografia dello spazio urbano II – La mia ‘mappa cognitiva’, negozi, nuovi ‘amici’

Cambiare casa e andare a vivere in un’altra città, o anche solo in un altro quartiere, significa dover sviluppare una nuova ‘mappa’ di punti di riferimento necessari per le attività fondamentali dell’esistenza quotidiana. E per conoscere un posto nuovo per me non c’è modo migliore di camminarci dentro – sentendone odori e suoni.

I primi giorni in cui abitavo nella casa nuova la mia esplorazione del quartiere si fermava a brevi puntate verso la latteria e la panetteria. La latteria era un negozio d’altri tempi con due porte di ingresso. Una apriva sul lato bar, dove un semplice bancone con la macchina del caffè, un tavolo con la tovaglia a quadri bianca e rossa e quattro sedie ospitavano anziani clienti al mattino e muratori e operai all’ora di pranzo. L’altra porta apriva sulla latteria vera e propria, un ambiente piccolo con uno scaffale refrigerato per i latticini. A fianco della latteria, una panetteria con il forno annesso aveva un aspetto decisamente più moderno, ma anche standardizzato – con il mobilio in legno chiaro grezzo. Una volta questo negozio era più piccolo e i prodotti si ammucchiavano in un caldo e denso disordine. Mio nonno, ogni Natale, comperava qui il pandoro e non perdeva mai l’occasione di acquistare anche un paio di numeri della ‘lotteria della panetteria’ – un’iniziativa che illustra bene la dimensione ‘locale’ della quale sto parlando. Le nostre vincite, in questo caso, si limitavano a una bottiglia di spumante di qualche marca di media qualità.

Come me – e con me – mio nonno paterno amava camminare. Mi prendeva per mano – avevo sei/sette anni – e mi portava in giro nel suo tentativo quotidiano di prendersi qualche ora d’aria da mia nonna. Compravamo per lo più in panetteria: mio nonno si faceva mettere da parte il pane e altre cose, pagava e vi lasciava le borse in consegna per poi riprenderla al ritorno. Poi proseguivamo fino dal giornalaio – un tifoso sfegatato del Torino come tutta la mia famiglia – dove chiedevamo La Stampa e a me, se era già uscito, Topolino. La gestione dell’edicola oggi cambia in continuazione e ogni sabato che mi permetto l’acquisto de La Repubblica non so mai se la troverò aperta o chiusa.

Nelle passeggiate di un tempo la tappa successiva era dalla verduriera, dove gli acquisti terminavano. Ultimamente, una sera, sono entrata in questo negozio alla ricerca di un limone e, appena varcata la soglia, mi ha investito l’odore che c’era già trent’anni fa – odore di mobili vecchi, conserva di pomodoro fatta in casa, cassette di cipolle. Mio nonno, con la sua cortesia piemontese, si intratteneva a lungo a parlare con lei (così come con tutte le commesse e le signore del vicinato, a dire il vero), per poi cercare di nuovo la mia mano e riprendere poco convinto la strada di casa.
Camminava molto, molto, molto lentamente e quasi sempre mi faceva giocare ancora una mezz’ora nei giardini davanti al giornalaio, per poi fermarci ulteriormente al bar dell’angolo, dove prendevamo l’aperitivo – un Punt-è-Mes lui, un Crodino io – leggendo ognuno il proprio giornale.

La ‘mappa’ di mio nonno prevedeva spostamenti verso sinistra. La mia attuale verso destra. Niente politica – solo l’asse sul quale si situano i nostri negozi e locali preferiti. Salvo per la panetteria, i servizi più utili per me sono nella direzione opposta. I primi tempi in cui vivevo qui, non potendomi preparare la colazione in casa, sperimentai tutti i bar della zona alla ricerca del caffè migliore. Su un angolo diverso da quello del caffé scelto da mio nonno, ho trovato il ‘mio’ bar. Col proprietario ormai siamo in confidenza, ci siamo raccontati le nostre storie e ci chiamiamo per nome, sempre mantenendo una gentilezza e una riservatezza ‘sabauda’ – nel loro caso acquisita, nel mio meticcia. Poi ci sono la tabaccheria, con la commessa africana che parla con un accento piemontese più forte del mio, e l’ufficio postale, dal quale partono i miei pacchi per l’altra parte del mondo che tanta perplessità e curiosità suscitano negli impiegati che mi aiutano a spedirli.

Nella notte, infine, in questa zona c’è sempre la certezza di mangiare qualcosa: sull’altro angolo del corso un chiosco dei panini vende salsicce e verdure di dubbia conservazione, ma quando la fame è disperata pure quello va bene. A volte ci vado tornando dai miei giri serali e bevo qualcosa con il gestore, la commessa rumena e i militari in libera uscita della caserma di fronte. Lascio parlare ciascuno a ruota libera, ascolto pezzi di vita e in qualche modo sono felice della diversità che mi ritrovo anche sotto casa. Talvolta questi ragazzi mi accompagnano fino al portone. In altri casi sono da sola e cammino rasente i muri dell’azienda telefonica, nei cui anfratti si riparano con scatoloni e coperte i senzatetto.
Il mio ritorno è protetto in ogni caso: dalle telecamere di sorveglianza, da vicini affettuosi quanto poco riservati, dai mille occhi dietro le tende e le finestre di vecchiette incapaci di dormire – nuovi ‘amici’, nuovi angeli custodi.