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Della pensata di affidare la traduzione di Amanda Gorman a Marieke Rijneveld, e della questione dell’appropriazione culturale che vi gira intorno
3 Marzo 2021
Amanda Gorman è la giovanissima poetessa e attivista afroamericana che riflette e scrive di oppressione, femminismo, razzismo, emarginazione e diaspora africana, e che è salita alla ribalta internazionale nel momento in cui è stata chiamata a leggere una sua poesia, dedicata alla riconciliazione e all’unità nel contesto della cerimonia d’insediamento di Joe Biden come Presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio scorso.
L’improvvisa notorietà ha avuto come effetto repentino che le sue opere già pubblicate, nonché la poesia in oggetto, siano ora stampate in nuove pubblicazioni e tradotte all’estero, ed è qui che nasce il caso dal quale prende le mosse questa riflessione.
L’editore olandese che dovrebbe pubblicare la traduzione del suddetto testo, infatti, pare (1) ne avesse affidato la traduzione alla giovane scrittrice di punta più letta e venduta in Olanda al momento, Marieke Rijneveld, la quale aveva accettato entusiasta. Giovani entrambe (malgrado la Rijneveld abbia 10 anni di più della Gorman), coraggiose entrambe in merito alle rivendicazioni dei propri diritti (l’una su femminismo e diseguaglianze culturali, l’altra su questioni di genere), e – dice appunto l’esitore – simili dal punto di vista stilistico ed espressivo.
La pubblicazione di tale annuncio ha però ricevuto un coro di commenti critici sui social e su testate giornalistiche da parte di giornalisti/attivisti olandesi d’ascendenza africana (come Zaïre Krieger) o afro-sudamericana (come Janice Deul) tale che la Rijneveld, e l’editore con lei, hanno rinunciato a tal incarico.
La ragione è che Marieke Rijneveld, in quanto ‘bianca’, non avrebbe la sensibilità necessaria per la traduzione di un testo che include il razzismo visto dalla prospettiva afroamericana, per cui una traduzione affidata a lei e realizzata da lei sarebbe un atto di “appropriazione culturale”.
FACCIAMO CHIAREZZA: APPROPRIAZIONE CULTURALE FOR DUMMIES
Alcune volte la questione viene estremizzata: è “appropriazione culturale” il caso di Morgan Bullock, giovane afro-americana diventata famosa grazie alle sue abilità di ballo irlandese?
Se così fosse, allora solo i cubani dovrebbero ballare la rumba, i brasiliani la samba e mai e poi mai chiunque non fosse salentino dovrebbe permettersi di ballare la pizzica!
Meglio è allora guardare alle definizioni, e distinguere innanzitutto tra appropriazione culturale e scambio (inter)culturale.
L’”appropriazione culturale” è la presa di possesso di un elemento concreto o l’adozione di una pratica non materiale propri di una cultura minoritaria, marginale o in condizioni di sottomissione di vario tipo – politica, economica, sociale – da parte di una cultura dominante, per finalità diverse da quelle per cui tali elementi erano nati dove, in tale processo, la cultura dominante li snatura con comportamenti che vanno dal dileggio alla ri-significazione alla loro mercificazione.
Ci sarebbero da scrivere quindi tonnellate di j’accuse, da parte di chiunque nei confronti di chiunque, per quanto riguarda il mondo coloniale (a partire dalla stessa costituzione degli Stati Uniti sulla defraudazione della simbologia e dei valori dei nativi per costituire i propri ideali di libertà come neo ‘popolo americano’ per poi giungere a tutto ciò che è stato derubato, in termini di patrimonio materiale – oggetti – e immateriale – valori, parole, miti, riti, pratiche quotidiane o cerimoniali d’ogni sorta – alle popolazioni assoggettate in ogni parte del mondo dagli imperi europei). E in parte lo si sta cominciando a fare, e si sta – seppur le istituzioni della cultura dominante tendano a nicchiare, abbozzare, controllare la situazione e la proprietà materiale e simbolica degli elementi oggetto di contesa – cominciando a cercare di impostare una nuova forma di relazione interculturale basata sulla parità tra gli interlocutori in gioco, si vedano i casi dei musei delle culture del nord del mondo (2).
Ancora più immediato e rimembrabile da chiunque il caso di uno spot della FIAT nel 2006 in cui alcune donne eseguivano una haka, a indicare che quest’auto le avrebbe aiutate a vivere come le guerriere che sono chiamate a essere nella vita quotidiana odierna.
La haka è in realtà un genere di danze dei Maori neozelandesi che ne annovera diverse, di volta in volta eseguite per ragioni rituali, cerimoniali e anche dai guerrieri prima di un combattimento. Quella più conosciuta è la Ka Mate, praticata da più di un secolo dalla squadra nazionale di rugby neozelandese degli All Blacks, la quale è stata comunque oggetto, in passato, di discussioni con le comunità native locali e che ha visto di recente raggiungere un accordo tra squadre di rugby neozelandesi e popolazioni native che accorda alle prime la possibilità di avere ciascuna una propria haka ispirata ai diversi gruppi culturali.
Lo spot della Fiat, invece, si è mosso nella più assoluta appropriazione culturale, non avendo mai chiesto (primo atto di appropriazione indebita), né avuto (secondo atto di appropriazione indebita), tale permesso e, per di più, attribuendo alla danza un significato completamente diverso da quello originario (e quindi snaturandola: terzo atto di appropriazione indebita) e in più per fini commerciali (quarto atto di appropriazione indebita).
La differenza con lo scambio culturale sta nel rapporto non paritario di forze tra i due soggetti in gioco (dove a quello dal quale viene preso l’elemento non è riconosciuto alcun diritto, malgrado l’elemento oggetto di sottrazione sia suo), premessa alla mancanza di un accordo ‘orizzontale’ frutto di una negoziazione alla pari.
Alcuni casi sono allora chiari esempi di appropriazione culturale, altri invece andrebbero concepiti altrimenti.
IL BISOGNO DI ANALISI SPECIFICA CASO PER CASO
Eppure, proprio per la variabilità dei sistemi di valori, dei sistemi simbolici, delle pratiche materiali e immateriali, della storia delle relazioni interculturali (non sempre pacifiche, e spesso anzi tutt’altro) e degli attuali squilibri di potere politico ed economico delle diverse culture, non è possibile identificare con chiarezza e una volta per tutte quando ci si trova davanti a un atto di appropriazione culturale e quando davanti a un atto di scambio culturale, e la questione richiede quindi almeno cautela, attenzione e analisi di un numero significativo di variabili.
L’adozione di elementi da altre culture, così come lo scambio, l’ispirazione, la citazione, la traduzione, è una caratteristica universale dell’umanità, sempre accaduta nel corso della storia. Tant’è che oggi si è abbandonata completamente la concezione delle culture come sistemi chiusi e omogenei proprio perché errore di interpretazione storico, in quanto gli scambi e i movimenti hanno sempre caratterizzato l’umanità: migrano le persone così come gli oggetti, le pratiche, i valori e quindi tutte le culture sono ab originem sincretiche, mescolate, meticce, sintesi di elementi diversi.
Ma se a livello individuale la questione può essere risolta sotto il segno del rispetto, della curiosità, della buona fede (due bambine che giocano insieme a ‘farsi i capelli’ stanno compiendo un atto di appropriazione culturale? E due ragazze che si ritengono belle nel momento in cui si pettinano reciprocamente assumendo l’una le abitudini dell’altra scambiandosi un rossetto o una maglietta?), a livello collettivo il problema è più complesso.
Domande quali “chi beneficia di questa azione?”, “Solo uno dei due o entrambi?”, “In che modo ne beneficia?”, “Qual è il fine immediato e quale quello ultimo di tale azione?” sono fondamentali, e – quando interessano questioni di interesse collettivo e con soggetti numerosi (una intera comunità) richiedono conversazioni (e negoziazioni) libere tra i diversi interlocutori per produrre risposte che soddisfino tutti loro (e anche altri al di là di loro). Se per esempio le pettinature afro vengono promosse come trendy, snaturate e mercificate da parte del sistema della moda, che sappiamo essere in sé pensato per la popolazione bianca, dopo che le donne nere sono state per secoli non solo oggetto di discriminazione e dileggio da parte della popolazione bianca, ma lo sono ancora, e vengono continuamente sollecitate a conformarsi a modelli estetici bianchi (pelle chiara, capelli lisci, corporatura sottile ecc.), allora lì è quanto meno giusitificato che scatenino il putiferio, e l’accusa di appropriazione culturale ci sta tutta senza discussioni.
LA QUESTIONE AMANDA GORMAN – MARIEKE RIJNEVELD
Ha un senso? Secondo me non prioritariamente in termini di “appropriazione culturale” (pur se una riflessione in questo senso ci sta). A mio avviso, la questione ha messo in luce una quantità di problemi e variabili che non sono stati adeguatamente dibattuti, negoziati e concordati tra i soggetti in gioco, cosa che avrebbe permesso di anticipare le critiche e magari porgervi un po’ meno il fianco.
Una traduzione richiede in primis che il traduttore abbia competenza (in generale) e sensibilità (per il tema specifico). Se sulla prima questione vi sono state poche discussioni – e invece credo che ci si sarebbe dovuti chiedere se la Rijneveld avesse esperienza come traduttrice, se avesse mai fatto un lavoro del genere e con quale esito, è stato però sulla seconda – quella della non condivisione delle problematiche razziste vissute delle donne nere (parlando in soldoni) che si sono concentrate le critiche. Esperienza e, di qui, sensibilità che avrebbero invece le giovani poetesse migranti di terze/quarte generazioni da ex colonie olandesi, quelle che Zaïre Krieger suggeriva come alternativa.
A Zaïre Krieger si potrebbe rispondere che la mera somiglianza nel colore della pelle non significa automaticamente identica esperienza culturale di discriminazione tra una giovane afroamericana e una giovane olandese di origine africana e che tal discriminazione non rende comunque automaticamente competenti nel tradurre un testo letterario da un Paese all’altro . E che magari altre forme di lotta che vedono invece attiva Marieke Rijneveld (ovvero quelle sulla salute mentale e sul genere) potrebbero averla comunque resa attenta alle discriminazioni in generale, e quindi non così aliena alla sensibilità della Gorman e alle lotte di quest’ultima.
L’alternativa proposta da Zaïre Krieger è quindi sicuramente più politicamente corretta e permetterebbe l’eventuale emergere di talenti che, grazie alla notorietà che porterebbe loro il tradurre la Grosman, eviterebbero di sudare sette camicie per emergere in assenza di questo incarico.
Ma chiaramente un editore non è detto che abbia questa finalità…
Già, perché qual è la finalità dell’editore? Questo non è dato saperlo, ma solo supporlo.
Voleva fare un atto di riconoscimento delle giovani poetesse di origine afro o afroamericane in generale? O gli interessava solo la Gorman e riteva realmente che la Rijneveld sarebbe stata in grado di rendere la traduzione del testo valida, corretta, qualitativamente pari all’originale? O non è che la Rijneveld, piuttosto, sarebbe stata certezza di successo e vendite e quindi che la sua scelta non sia stata dettata da una presunta (e indimostrata) competenza, ma sia da leggersi come pura azione di marketing?
Non si poteva cominciare con l’esplicitare le ragioni e i processi intercorsi tra tutti gli interlocutori (editore olandese, editore americano, Grosman, Rijneveld) per arrivare a tale scelta? Sarebbe sicuramente stato utile.
Quando una scelta è delicata in quanto potenzialmente attivatrice di questioni come questa, indicare il percorso svolto per arrivarci è un atto di onestà intellettuale fondamentale! Si può quindi solo presumere che vi sia stata una stupefacente quantità di ingenuità e leggerezza nel trattare il problema. Stupefacente ma non impossibile.
Il problema di una presunta appropriazione culturale c’è, in sintesi, ma si intreccia ad altri problemi relativi proprio alla pratica editoriale, e alle conseguenze in termini di guadagno economico da una parte e responsabilità politiche dall’altra.
Non fa male avere di questi ‘incidenti’, allora, di tanto in tanto, per far dubitare anche chi svolge il mestiere di investire denaro nel dare la parola alle persone e farvi eco.
Così da trovare i modi, tutti insieme, chi ragiona da tempo su queste questioni, chi si è sentito defraudato e non vuole più esserlo, chi vuole poter ballare la pizzica pur se è discendente degli inuit, dei bantu o di immigrati nel Salento dal Suriname e così crescere tutti insieme trovando il modo di armonizzare le differenze al fine di garantire la libertà e al contempo il rispetto di ciascuno.
Per chi volesse sentirmene parlare, sono stata in conversazione con Barbara Costamagna sul tema ne “I divergenti, programma informativo”, puntata del 3 marzo 2021, da lei curato e che trovate qui: https://www.rtvslo.si/4d/arhiv/174757984?s=radio_ita
NOTE
(1) Scrivo ‘pare’ perché, a documentarsi online, non si capisce chi abbia deciso la cosa, se l’editore – come probabile – o se la Gorman – come invece afferma l’editore (sebbene in quest’ultimo caso ci sarebbe da dubitare che la Rijneveld sia conosciuta al di fuori dei confini olandesi, tanto più a una poetessa americana che si occupa di tutt’altro, ma per quanto ipotesi improbabile non si può affermare che sia impossibile…).
(2) E qui rimando alla pubblicazione online “Nuova Museologia. I musei delle culture” (2019) curata con la collega Maria Camilla De Palma: https://www.nuovamuseologia.it/category/n-41-novembre-2019/
(3) Tant’è che da decenni abbiamo traduttori che affinano le proprie competenze cone interpreti culturali, oltre che linguistici, proprio in relazione a contesti di oppressione storica e perdurante, e non è detto che le esperienze di autore e traduttore siano identiche, ma la competenza e la frequentazione reciproca per imparare insieme a rendere il testo nel modo migliore è premessa imprescindibile: si pensi in Italia a chi ha tradotto due scrittrici afroamericane come bell hooks (Maria Nadotti, già residente a lungo come traduttrice letteraria negli Stati Uniti e in costante frequentazione di bell hooks) o Toni Morrison (Franca Cavagnoli, proprio docente di questo tipo particolare di traduzioni!).